In memoria delle vittime delle Foibe nel Giorno del Ricordo
Per un’etica condivisa
prof.ssa Maria Miracapillo
“La ragione per cui gli uomini vogliono vivere insieme è una ragione positiva, e di creazione…La paura della guerra non è mai stata la ragione per cui gli uomini hanno avuto bisogno di vivere insieme e di formare una società politica per intraprendere in comune un dato compito”.
E’ ciò che è accaduto al popolo giuliano, istriano e dalmata dopo la fine della Seconda guerra mondiale, negli anni 1943-1947 con l’incursione della polizia segreta del maresciallo Tito che prelevava dalle loro case uomini e donne, sottoponendoli a torture atroci e gettandoli nelle foibe. Si è trattata, in verità non solo di pulizia etnica nei confronti di coloro che avevano una cultura italiana ma anche di persecuzione di religiosi e sacerdoti. Ricordiamo, a questo proposito, don Francesco Bonifacio, martire in “odium fidei” simbolo religioso dell’esodo degli italiani dalla Venezia Giulia, giovane parroco ucciso nei pressi di Grisignana in Istria dalle bande «titine» nel 1946, a guerra terminata. Altri ne seguirono, e non solo sacerdoti italiani, infatti tra le loro fila, anche uomini di Chiesa croati, come il giovane don Miro Bulesic, della diocesi di Parenzo-Pola, sgozzato nel 1947 dai «titini» e beatificato a Pola nel settembre 2013.
La memoria storica di questa triste pagina che ha attraversato la storia del popolo italiano, nel suo percorso di vita, ancora non nota a tutti, viene istituita dalla Repubblica Italiana il 10 Febbraio, con legge 92 30/03/2004, come Giorno del Ricordo in memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale.
Sicuramente la celebrazione della Giornata del Ricordo è un momento fondamentale della storia europea, come lo è stato quella della Memoria, il 27 gennaio scorso. A queste giornate e alle altre che hanno fatto seguito, solitamente si risponde con eventi, incontri promossi dalle istituzioni e dalle associazioni. E poi? Tutto qui? Sembra che alla cultura della memoria a vari livelli si contrapponga una sempre più marcata cultura dell’amnesia, schiacciati in un eterno presente che non vuole più saperne della storia e tanto meno del futuro, anzi, faccia riscontro disagio, fastidio e noia. Come valorizzarla, invece, in maniera efficace perché non si riduca a ripetitività sterile o al semplice ricordo? E’ innanzitutto, credo, una giornata di etica condivisa, in cui ci si rende partecipi della cultura della memoria, attraverso una coscienza approfondita delle proprie radici, a prescindere da orientamenti ideologici e interessi partitici, con l’impegno ad educarsi ed educare le nuove generazioni alla vita della comunità, in cui gli uomini imparano a vivere insieme come un solo popolo, a riconoscere l’universalità dei valori, nel rispetto dell’altro e della tutela di quelle libertà che la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 1948 ci ha consegnato come “magna carta” di una fraternità universale, come fondamento e ragione per una necessaria fiducia nella convivenza; come solidarietà tra membri in vista del bene comune, come incessante ricostruzione di ponti, al di là delle diverse fedi, culture ed etnie. Insomma, è sentirsi parte di un Tutto, di un Tutto umano. Ciò, implica uno sguardo aperto, un modo di vedere la realtà della famiglia umana come comunità di popoli, piuttosto che come società di Stati- nazione, pur riconoscendo alla Nazione e allo Stato tutto il rilievo ad essi dovuto sul piano giuridico-istituzionale. E’ vivere il presente con la consapevolezza di essere responsabili del futuro. In un contesto frammentato, liquido, indifferente e con esplosione di ogni forma di violenza, siamo chiamati a lavorare insieme per una convivenza pacifica, per una società democratica, libera e giusta per tutti. “Quando gli uomini vorranno vivere insieme in una società mondiale sarà perché avranno la volontà di assolvere un comune compito mondiale”. Fantasie, illusioni? Certamente no. I sogni non abitano in alto, lontano da noi. Ma sono nel cuore di chi vuole ospitarli dando loro il tempo e la possibilità di crescere, come la terra con un seme. Sono di chi vive per un’ideale, per un valore che dà un senso e un significato alla sua vita, che continua a sperare, nonostante la realtà che lo circonda non corrisponda all’ideale e a quel mondo migliore in cui crede. Significativa è l’affermazione di Hannah Arendt, una grande pensatrice ebrea sul male di molti: la passività. Ogni uomo è libero di cominciare, è da lui che ha inizio un’azione, sua è la responsabilità di un’azione e non delle strutture o delle istituzioni. La politica è il tentativo di una persona capace di costruire rapporti, di chi vince la monotonia della quotidianità, continua a interrogarsi sul senso e il valore delle sue azioni, non si lascia vivere subendo i luoghi comuni della normalità e non rinuncia a pensare in modo critico.
Siamo chiamati, dunque a costruire un mondo differente da quello della sorda intolleranza, a esprimere “profezia” nella nostra vita terrena, a fare memoria di quanto Dio ha operato nelle generazioni passate e fondanti della fede e ad andare “oltre” e “altrove” da quanto la mentalità dominante accetta o esclude. Per cui questo tempo che viviamo deve diventare tempo di profezia rinnovata! La consegna che ci viene affidata: ”stare nella storia, vivendo la compagnia dei poveri e dei peccatori, consapevoli che si è al servizio dell’umanità”.